Racconti al Fuoco di Bivacco
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La leggenda di Spettine
2017-01-06 21:38:49
Il campo a Spettine è certamente uno dei luoghi più famosi e prestigiosi dello Scautismo italiano. Migliaia di esploratori e di guide vi hanno vissuto delle meravigliose esperienze di tecnica e di spirito scout.

Il campo è situato al centro di una verde conca appenninica; un drappeggio di bosco adorna l’imponente edificio costruito dagli scouts piacentini, con il loro entusiasmo, con il loro impegno e soprattutto con le loro mani. Nella vecchia casa, sulle cui rovine è sorto l’attuale edificio, abitava una volta un falegname di campagna che costruiva o riparava carri, attrezzi agricoli, porte e mobili rustici. Dal bosco, ricco di legname di varie qualità, prendeva il materiale che gli serviva. Era sua cura poi ripiantare i vari tipi di alberi e farli crescere diritti. Quella bella macchia di verde era chiamata, per questo, «bosco del carradore». Oltre gli alberi, anzi attraverso un varco che si apre in mezzo alle loro cime, si vedono ancor oggi i ruderi arcigni di un vecchio castello. Dal campo vi si può arrivare in una ventina di minuti di cammino, salendo un ripido sentiero, che per la sua bellezza naturale spesso è scelto dagli scouts per un’esplorazione d’ambiente o per una veglia notturna itinerante, con logica conclusione ai piedi delle mura del castello, sempre un po’ misteriose, specialmente quando la luna piena, con il suo gioco di ombre e di luci argentati, crea una plasticità tutta medievale nel paesaggio. Naturalmente, come ogni maniero che si rispetti, anche questo ha una sua leggenda: immaginate che io ve la racconti mentre voi siete seduti attorno a un fuoco e la mia ombra si riflette e danza contro le vecchie e screpolate mura, colorate di mistero.


Ma procediamo con ordine. Ecco alcune notizie storiche che ho trovato in un vecchio libro scritto nel 1805 da Antonio Boccia e intitolato «Viaggio ai monti di Piacenza». Ci serviranno a fare mente locale. «Da Ebbio a Spettine vi sono quattro miglia e mezzo. Queste sono le più faticose e perigliose ch’io abbia fatto da che sono al mondo. Vi sono più strade per giungere a questa chiesa, una peggiore dell’altra e la sciocca guida mi favorì di condurmi per la più disastrosa, circuendo il monte dei Barbieri con dei saliscendi difficoltosi e costeggiando per due miglia, per un sentiero poco piùlargo di un palmo, con lo spaventevole aspetto di continue profondissime ripe quasi a perpendicolo, sicuro d’andare in pezzi, se il piede non avesse geometricamente compassato il terreno. Aggiungasi che il piano del sentiero era formato di minuti pezzi di carbonato di calce assai mobili che scorrevano assai facilmente essendo premuti dal piede, ond’è che conveniva appoggiarlo con ogni cautela. La giornata era cocentissima, le ore le piùfervide poiché dopo il mezzogiorno appena. Il riflesso del carbonato di calcio, di cui è tessuta quella costa, nessuna ventilazione d’aria dei seni, che vi sono ad ogni tratto, ed il sempre presente pericolo di andare in frantumi, aumentavano il calore più delle circostanze. Questa marcia fu così spaventosa e terribile, che saputasi dai parroci circonvicini ne fecero le più alte meraviglie.«La chiesa di Spettine è molto antica e sarà fra non molto inaccessibile, perché dalla parte verso la Nura vi si sale per un strada corta bensì, ma altissima, che - quanto prima - sarà impraticabile, e l’altra strada, che viene dalla costa già descritta, vicino alla chiesa va dirupandosi ed è sostenuta da una specie di ponte fatto con tronchi d’albero che poggiano su due estremità delle ripe, che oggimai sono vicine alla chiesa». «Contiguo alla chiesa di Spettine eravo ne tempi passati un castello i di cui avanzi veggonsi tuttora». Come vedete, un vero percorso da Hike! Veniamo ora alla nostra leggenda. Una manciatina di secoli addietro, il castello era governato da un tristo figuro, che di nobile aveva solo il titolo, ed era aiutato nelle sue malvagie imprese dai figlioli. Il mestiere loro sembrava fosse quello d’imporre balzelli oltre il limite ai contadini e ai viaggiatori di passaggio e di godere in baldorie quegli immeritati guadagni. Padre e figli erano una maledizione per tutti ma poco gliene importava, tanto erano avvezzi ormai a succhiare sangue ai poveri e a vivere di prepotenza. Forse il nome Spettine deriva da codesta loro attività. Un figliolo però faceva eccezione ed era, diciamo così, la «pecora bianca», della famiglia. Si chiamava questo figliolo Agide ed era cresciuto, pianticella spontanea, ricco di buoni sentimenti e di amore verso il prossimo, tanto che non potendo più sopportare l’ambiente domestico e le villanie dei fratelli, un bel giorno decise di partirsene per altri lidi, ove poter respirare miglior aria. La sua partenza fu considerata anche dagli altri una specie di liberazione, poiché veniva così a mancare l’unica «pietra di conforto» che in qualche modo avrebbe potuto far ricordare l’esistenza della bontà. Dove se ne andò nessuno lo seppe o forse a nessuno interessò. Qualche viaggiatore, venuto da lontano, disse d’averlo intravisto a Firenze con l’abito della «Misericordia», qualche altro parlò addirittura di S. Giacomo di Compostella, che era la meta ultima dei pellegrini pieni d’amor di Dio, ma se ne parlò sempre in termini molto vaghi ed imprecisi, tanto che dopo qualche anno si perse anche il ricordo di lui. Se i suoi parenti avessero avuto buoni sentimenti si sarebbe potuto almeno giustificare codesto oblio col proverbio «lontano dagli occhi, lontano dal cuore!» ma qui di cuore non era proprio il caso di parlare. Molti anni dopo in una gelida sera d’inverno, arrivò a Spettine un viandante adorno di un ricco barbone e avvolto in un lacero mantello, che conservava però qualche segno di un’antica nobiltà. Non sembrava che il suo cammino avesse una direzione precisa; chiese ad un contadino di poter dormire nel fienile e per carità ebbe anche una zuppa calda. Dopo qualche giorno era ancora in loco e poiché non aveva l’aria di quelli che amano vivere a sbafo, trovò da lavorare alle dipendenze del castello, in cambio di una minestra e di un rifugio per la notte. Gli furono assegnati subito i lavori più umili ed il riparo più sgangherato. Non si lamentò mai per il troppo lavorare, anzi sembrava che accettasse l’umiliazione in cambio di chissà quale peccato. I cani dei padroni erano certamente tenuti in migliore considerazione ed anche meglio nutriti. Se poteva, se gliene rimaneva il tempo, cercava di aiutare i poveracci come lui e quanti nei dintorni erano nella sofferenza: lo faceva soprattutto con qualche buona parola e con un invito a unire il proprio dolore a quello di Gesù Crocifisso e questa sua fede otteneva sempre maggior risultato dell’aiuto materiale, che pur cercava di dare con le sue braccia, perché di denaro certo non ne aveva. L’unico momento in cui pareva uscire da un volontario nascondimento era la mattino prestissimo, quando si recava a Messa nella chiesa parocchiale, che allora, come appare anche dalle cronache di Antonio Boccia più sopra ricordate, sorgeva prossima al Castello, in un luogo in cui ancor oggi pare di notare l’ubicazione. I preti allora avevano l’abitudine di recarsi in chiesa al mattino quando ancora fuori era buio e quindi quasi nessuno, tantomeno qualche abitante del castello, aveva modo di notare questa devozione del nostro personaggio. Un brutto giorno si ammalò e il parroco, avvertito in tempo da qualche altro servo che conservava un po’ di compassione, corse ad amministrargli gli ultimi sacramenti. Il poveraccio giaceva in un mucchio di stracci, in un sotterraneo umido che aveva tutta l’intenzione di voler far concorrenza al giaciglio di Giobbe o meglio alla grotta di Betlemme e proprio per questo il Signore fu molto contento di entrare in quel luogo e soprattutto in quell’anima. Di lì a poco morì. I signori del castello avrebbero voluto seppellirlo nella vigna per far concime, ma il parroco, che conosceva il suo segreto, decise con grande coraggio di dargli cristiana sepoltura e suonò le campane per radunare gente. Vennero tutti e non ci fu difficoltà a trovare anche i soldi per comperare quattro assi e fare una cassa con una bella croce sopra. Il parroco fece il suo bel discorso, insistendo molto sull’esempio di Gesù che era morto per riparare i peccati degli altri e sul grande valore della penitenza, scelta volontariamente e per mezzo della quale anche noi ci uniamo alla morte di Gesù in riparazione del male. Parlò anche del premio che ci attende in Paradiso e ricordò la parabola del povero Lazzaro. Non aggiunse altro certamente per non tradire il segreto della confessione. In quei tempi i funerali si celebravano al tramonto e il corteo era illuminato da tanti ceri, simbolo della resurrezione e della vita eterna: ogni partecipante ne portava uno. Lascio a voi immaginare le battute di spirito volgari che, anche in quella occasione, gli abitanti del castello ebbero il coraggio di cavar fuori, seguendo la scena dall’alto della torre. Poco prima dell’alba, quando ancora tutti dormivano, le campane della parrocchia si misero a suonare a distesa che pareva la mattina di Pasqua. In campanile non c’era nessuno… Immaginate lo spavento del parroco nell’udire quella sveglia anticipata e soprattutto nel trovare la porta del campanile perfettamente chiusa. La gente con l’animo agitato accorse fin dalle case più lontane e tutti si radunarono in chiesa con grande batticuore. Le campane intanto continuavano a suonare gioiosamente il loro inno di risurrezione. Il parroco allora indossò cotta, stola e piviale e fattosi precedere dalla croce, mosse verso il cimitero, poiché in quella direzione si vedeva un bagliore riflesso nel cielo, ancora trapunto di stelle ma già in via di rischiararsi per l’alba ormai vicina. Un nuovo giorno stava per sorgere e tutti ebbero la gioiosa sensazione che con il sole anche la loro anima sarebbe stata illuminata e riscaldata da una nuova luce. Sulla fossa ancora fresca del poveraccio sepolto la sera prima, trovarono una lastra di marmo con un nome che sembrava inciso con caratteri di luce: AGIDE. Il segreto, che il parroco aveva conosciuto e custodito nel chiuso del confessionale, si rivelava ora a tutti con la ricchezza del suo significato e la luce del suo esempio. Tutti s’inginocchiarono e cantarono il Te Deum. Al termine anche le campane cessarono il loro inno. Qualcuno raccontò che la lastra di marmo era così bianca da sembrare fosforescente e che di notte questo candore luminescente si vedeva nitido fin dal castello, quasi volesse essere un continuo richiamo. Neppure questo segno e questi fatti valsero a far cambiare condotta al padre e ai fratelli di Agide, che liquidarono il tutto con qualche battuta blasfema. È proprio saggio il proverbio che ci ricorda come «la pianta cade dalla parte che pende» e l’altro che conclude: «si muore come si è vissuti». Ad uno ad uno, infatti, quando venne la loro ora, se ne andarono tutti senza prete e senza sacramenti. Furono sepolti nella grande tomba di famiglia, accompagnati da commenti di sollievo di quanti malauguratamente li avevano conosciuti. La grande pietra scura che ricopriva il loro sepolcro si spezzava di continuo e per quanto si facesse per ripararla non era mai possibile vederla intera. Spesso veniva ritrovata anche spostata e la gente diceva che di notte degli uccellacci scuri e delle ombre uscivano dalle fessure e volavano sui merli del castello con stridii lamentosi. Sembra che si sentano anche oggi, soprattutto nelle notti senza luna, e qualche scout crede di averli intravisti. Molti cominciarono allora a pensare che sarebbe stato meglio spostare la chiesa lontano da quel castello così triste e maledetto, edificandone una nuova in una località più comoda e centrale rispetto ai vari borghi. Passò molto tempo prima che si giungesse ad una decisione operativa. Ai tempi di Boccia se ne parlava ancora ma finalmente si arrivò a dare inizio alla costruzione del nuovo edificio. Quando tutto fu pronto, il parroco in carica con una grande processione, cui parteciparono anche gli abitanti dei paesi vicini, trasportò nel nuovo edificio tutti gli arredi, le statue e il Santissimo Sacramento. Nella vecchia chiesa rimasero solo le campane, in attesa di una impalcatura speciale necessaria per rimuoverle. Quella notte stessa suonarono ancora a distesa sul vecchio campanile e la gente da lontano vide un gran chiarore nel camposanto. Al mattino molti curiosi accorsero per vedere ciò che era acccaduto e con grande sorpresa constatarono che la tomba di Agide era scomparsa. Il parroco, conoscendo tutte le notizie storiche annotate nell’archivio, concluse che dopo la partenza di Gesù Eucaristico dalla vecchia chiesa, Agide non aveva voluto lasciare nemmeno le sue ossa nella zona. Un’altra versione della leggenda dice che la lapide di Agide fu impiegata per costruire la mensa del nuovo altare. La vecchia chiesa pian piano rovinò e le pietre che si poterono recuperare furono impiegate per altre costruzioni e per restaurare, nel secolo scorso, il castello. Anche il cimitero fu abbandonato e il tempo cancellò anche lui dal territorio, lasciando solo il ricordo... sfumato in leggenda. Non sembra invece che siano sparite le ombre oscure: nelle notti senza luna volano stridendo e cigolando attorno alla torre del castello. Ma forse saranno solo il prodotto della fantasia di qualche scout impaurito. Nei campi di specializzazioni se ne fa comunque un gran parlare…

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