Racconti al Fuoco di Bivacco
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I sette vizi capitali
2017-01-06 21:44:45
Qualche anno fa a Fano funzionava un terreno di campo scout fisso, utilizzato soprattutto per i corsi di vela. Era posto vicino al mare; ma andiamo a leggere la sua storia

Una volta il terreno di quella località era appena sul livello del mare e quando le onde in tempesta riuscivano, durante l’alta marea, a superare la striscia sassosa della spiaggia, si trasformava in un ampio acquitrino. Anche durante la buona stagione rimanevano pozze di acqua stagnante riparate da cespugli di canne.
Per questo suo aspetto la zona era considerata maledetta dagli abitanti della città, ed anche malsicura perché in essa vi trovavano facile rifugio e nascondiglio vagabondi e malandrini. Sembra che tra le canne sorgessero anche delle capannucce o delle baracche, ma nessuno poteva affermarlo con certezza, poiché si tenevano tutti alla larga e se qualcuno aveva necessità di transitare nelle vicinanze, prima si segnava per la paura, poi affrettava il passo e procedeva con lo sguardo rivolto a terra, per non destar sospetto di voler spiare o anche solo vedere. Se era possibile tutti preferivano passare più lontano anche a costo di allungare di molto il cammino.
Di certo si sapeva che in mezzo alla palude era stata costruita in modo più stabile una baracca e che era abitata da sette fratelli, siprannominati dalla pubblica opinione “I sette vizi capitali”.
La definizione era azzeccata ed essi facevano di tutto per mostrarsi degni di quell’etichetta. In città difficilmente avrebbero trovato un alloggio, né avrebbero avuto la possibilità di potersi muovere senza controlli per i loro loschi affari, così come invece erano liberi di fare in quel loro regno fuori mano e così ben protetto, sui confini, dalla paura degli altri. La loro condotta valeva il nome e la fama che si erano meritati e la paura che incutevano.
Oltre alla baracca in mezzo agli acquitrini possedevano anche una barcaccia che serviva per i loro loschi traffici. Normalmente la tenevano ormeggiata poco distante o tirata in secco sulla spiaggia.
Per le faccende di casa e altri servizi avevano preso un povero orfanello, più o meno sui dodici anni, e lo obbligavano a lavorare sodo in cambio degli avanzi della loro mensa e di molte percosse. Spesso era anche oggetto di scherzi malvagi. Unica consolazione per quel ragazzetto di nome Alberto era la compagnia di un cane randagio, che si azzardava ad avvicinarsi alla baracca solo quando i padroni erano via con la barca. Una volta, infatti per eccessivo ottimismo o solo per distrazione, aveva trascurato la regola e si era buscato una scarica di legnate, per cui in seguito, non tentò più di ripetere l’esperienza.
Controllava la situazione da lontano e appena si rendeva libera la strada, correva a far festa al suo giovane amico che lo contraccambiava con molta effusione e qualche osso. Tutti e due avevano bisogno di affetto, poiché il mondo era stato avaro con loro.
Una bella sera di luna piena, i sette fratelli ritornarono molto allegri e soddisfatti poiché, a loro avviso, avevano concluso un «ottimo affare». Lungo la strada di Ancona, oltre la foce del Metauro, avevano assalito un ricco mercante, lo avevano percosso duramente e derubato. Poiché non dava più segni di vita, avevano caricato il suo corpo sulla barca, per farlo sparire in una zona più lontana. Il bottino superava le aspettative e perciò decisero di fare grande baldoria. Alberto aveva lavorato tutto il pomeriggio per preparare una zuppa di pesce. In tavola furono portati alcuni fiaschi di vino buono. Ad un certo momento della festa, i sette fratelli sotto l’effetto del «verdicchio», oltre che della loro cattiveria, decisero di giocare un brutto scherzo ad Alberto, ignaro degli antefatti della giornata, e del morto.
«Vai a prendere - gli dissero - quel sacco ch’è sotto il telone, nella barca». Poi si prepararono a sghignazzare per la paura del ragazzo. Si apettavano un grande urlo di spavento ma udirono invece un tremendo colpo contro la porta, che si spalancò violentemente. Nel riquadro apparve il morto con gli occhi di fuoco e l’indice minacciosamente puntato contro i presenti. Con un tono di voce che non lasciava dubbi disse:
«La catena delle vostre nefandezze è al termine e vi avvolge tutti. Avete stuzzicato anche la morte e la morte ora viene a prendervi. Venite con me!».
«I Sette vizi capitali», rimasti sul momento immobili per la paura, come rispondendo ad un appello, tentarono allora di alzarsi ma inutilmente perché ad uno ad uno invece strabuzzarono gli occhi con una smorfia diabolica e rotolarono giù dalle sedie, rimanendo poi immobili sul pavimento. Alberto intanto era entrato per l’altro ingresso.
Una gran ventata rinchiuse la porta sul buio della notte e quando, dopo qualche minuto, il povero garzone, con i capelli diritti per lo spavento, si slanciò fuori per chiedere aiuto, non vide più nessuno. Anche la barca, strappati gli ormeggi, era sparita nella notte.
Il ragazzo col cuore in gola, corse allora in città ed ebbe qualche difficoltà a farsi aprire la porta dalle guardie. Nel cielo, illuminato da una fredda luna piena, correvano sette nuvoloni neri, simili a trombe d’aria; gli scuri delle finestre sbattevano, i grandi alberi vicino al castello gemevano e si piegavano verso terra; i cani ululavano…
Era una notte d’inferno che faceva gelare il cuore e tremare le ossa. Le guardie sentendo bussare violentemente alla porta delle mura ed udendo dei gemiti, presero molte precauzioni prima di aprire e si meravigliarono molto nel vedere il ragazzo piangente in quell’ora tarda.
Il cane lo seguiva guaendo, con le orecchie basse e la coda tra le zampe. Prima dell’alba nessuno si azzardò ad uscire per fare un sopralluogo. Col sole, il Capitano del popolo, un nugolo di guardie e il parroco della cattedrale andarono a controllare.
Non potendo seppellire i sette briganti nella terra benedetta del cimitero, fu scavata per loro un profonda fossa, vicino alla capanna; poi vennero tutti gli abitanti di Fano a scaricare con entusiasmo terra e sassi sui cadaveri.
L’incubo era terminato: i «Sette vizi capitali» erano sepolti, ma per paura di rivederli, i fanesi continuarono ad accumulare materiale sulla loro tomba, fino ad elevare una montagnetta.
La capanna fu bruciata; le monete e gli altri oggetti di valore recuperati furono regalati al ragazzo, che trovò ospitalità di ben altro tipo presso i frati di S. Agostino e in seguito divenne un bravissimo artigiano. In alcune chiese di Fano si conservano ancora cornici e decorazioni di legno scolpite, attribuite alla sua mano.
La zona attorno alla «collina dei Sette Vizi Capitali» rimase per alcuni secoli abbandonata. Nessuno si arrischiava a coltivare il terreno adiacente, nessuno desiderava approdare con la barca alla spiaggia vicina.
Qualcuno poi giurava di aver visto nella notte della luna piena di luglio sette nubi a colonna elevarsi in mezzo al mare, oltre la collina, tra forti raffiche di vento. Cinquant’anni fa, i militari in cerca di una zona per costruire un poligono di tiro, pensarono di sfruttare la montagnetta come parapalle e così la zona ebbe un suo nuovo assetto. In seguito, dopo la seconda guerra mondiale, il poligono fu abbandonato e il terreno adiacente fu per qualche anno impiegato dagli scouts, come ho già detto, per i loro campi scuola di vela.
Nel 1979 il reparto di Villanova ebbe la bella idea di fare un campo marino e non trovò difficoltà nel poter usufruire di questa base e delle sue attrezzature. La sera del 9 luglio, in occasione della luna piena, al termine del bivacco io ebbi la malaugurata idea di raccontare la leggenda del luogo. Quando iniziai il cielo era sereno e nessuno poteva immaginare quanto sarebbe di lì a poco accaduto. Al termine della narrazione, per uno di quei repentini cambiamenti atmosferici che qualche volta si verificano nelle zone marine, iniziò a spirare un forte vento; il cielo si oscurò da un lato e tutti videro chiaramente, oltre la collinetta, sette nubi verticali che correvano verso la luna. Ci precipitammo verso le nostre tende, ma senza successo, perché la tromba d’aria ormai le stava abbattendo tutte senza misericordia. Noi cercammo di salvare il salvabile aggrappandoci ai sopratetti che volavano via come foglie al vento tra raffiche di pioggia. Di li a qualche minuto la bufera cessò e d’improvviso tornò la calma. Per poter ripiantare il campo dovemmo rastrellare tutto il prato e lavorare fino a notte inoltrata.
Era la notte di luna piena di luglio e tutti avevano chiaramente visto le sette nubi nere, simili a trombe d’aria.
Se non fossi stato testimone della coincidenza, non avrei creduto…

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