Racconti al Fuoco di Bivacco
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Manoli
2017-01-06 22:45:24
Il Jamboree della Grecia ebbe un grande significato per l’Italia. Si trattava di riallacciare un vincolo di fraternità, dopo una tragica guerra, tra due popoli che hanno avuto un’antica storia comune ed una comune civiltà

Il 28 ottobre 1940, il regime fascista, che allora «governava » l’Italia, attaccò improvvisamnete la piccola Nazione greca col solo intento di accaparrarsi una gloria militare, che poi le mancò perché aveva mandato a combattere soldati privo di ogni equipaggiamento moderno ed armati quasi soltanto del loro valore. Per questo i nostri soldati per poco non furono ricacciati in mare, dopo aver dovuto ripiegare in Albania, e caddero a migliaia tra le nevi dell’Epiro, colpiti ancor più dal gelo che dalle armi. Fu in quell’occasione che gli alpini della «Julia» scrissero pagine di sacrificio e gloria. A migliaia caddero anche giovani greci per difendere la loro terra. L’Italia, con l’aiuto determinante della Germania, riuscì poi ad entrare in Grecia e le sofferenze di quel popolo continuarono, soprattutto a causa della fame. È vero che i soldati italiani, in molte occasioni, seppero dividere il loro pane con la popolazione locale, ma è anche vero che la causa di tante sofferenze era stata la guerra scatenata dal Fascismo. Ciò nonostante, quando l’Italia firmò l’armistizio, i Greci seppero dimenticare, divisero il loro già scarsissimo pane con i nostri soldati sopraffatti dalle armate tedesche. E li aiutarono a sfuggire alla prigionia. Leggete che cosa scrive uno che visse quei momenti tragici: «I Tedeschi ci incolonnarono sulla banchina avviandoci verso Atene, una baionetta per metro, con qualche calcio nella schiena per chi era più debole. La gente di Atene era scesa sulla strada, a salutarci. Pareva che una parola d’ordine fosse corsa per la città. Era giunta loro l’eco della nostra tragica vicenda, ed erano venuti a dirci la loro solidarietà. A noi, quello spettacolo di spontaneo affetto da parte di coloro che, fino ad ieri, ci erano stati nemici, a noi - inariditi dalle privazioni - quel gesto aveva riempito il cuore di speranza e gli occhi di lacrime. Gli ateniesi ci amarono in quel tiepido mattino di dicembre e anoi parve di aver incontrato dei fratelli. Erano scesi sulla strada con pane ed acqua (avevano certo capito che stavamo per morire di stenti). Qualcuno nella nobiltà del suo caritatevole gesto fu raggiunro e picchiato dalle sentinelle tedesche. Le donne ebbero frantumati tra le mani i vasi pieni d’acqua e gli uomini furono bastonati per averci gettato pane e fichi. Un bambino che correva ad una fresca fontana con le nostre borracce vuote fu gettato a terra e malmenato. Le sentinelle sparavano a cinque centimetri sopra la folla. Ma in quel mirabile corpo a corpo fra chi ci odiava e chi ci amava, vinse l’amore, più intrepido dell’odio, ed ognuno di noi ebbe, presto o tardi, lungo il lunghissimo tragitto di quattro ore di marcia, un sorso d’acqua, una parola di conforto e di incoraggiamento. Ci fecero percorrere tutte le strade principali della città, dovevamo evidentemente servire, con la nostra miseria e la nostra stanchezza, di efficace propaganda al potente esercito tedesco della Wehrmacht. Ma la gente, assiepata sui marciapiedi, applaudì ai seimila di Leros, forse perché avevano vittoriosamente combattuto l’ultima, la più difficile battaglia della nostra guerra, quella dell’onore. Ci rinchiusero nel campo di Euchita, ai margini della città, campo immenso e desolato, punteggiato di luride baracche. La gente venne ai reticolati e gettò ancora pane sotto le fucilate delle sentinelle tedesche. Verso la sera un piccolo greco, Manoli, cadde sul reticolato col cuore spezzato da una fucilata, mentre porgeva ad uno di noi, con semplice gesto, tutta la sua ricchezza, un tozzo di pane nero. La gente fuggì terrorizzata ed il piccolo martire rimase lì piegato su se stesso come un fiore spezzato sullo stelo. Chiesi all’ufficiale di poterlo seppellire, perché pensavo di mettere una croce sulla sua tomba e, forse non aveva né babbo né mamma. Ma mi fu impedito e lo portarono via su una camionetta militare. Invece Manoli aveva la mamma. E la mamma venne (era già notte, perché forse un po’ lo aveva aspettato) al reticolato e lì pianse e implorò con l’urlo di una belva ferita a morte. Qualcuno di noi fuggì nelle baracche perché era troppo straziante il pianto. Poi fu allontanata». Gli scouts italiani, andando in Grecia al Jamboree, cercheranno di rintracciare la madre di Manoli per tributarle una solenne manifestazione di affetto a nome di tutti i ragazzi e di tutte le madri d’Italia, affinché non sia dimenticato il gesto generoso di un ragazzo che offrì il suo pane e la sua vita, perché tutti gli uomini tornassero ad essere fratelli. Durante il Jamboree cercammo di rintracciare la mamma di Manoli, ma senza risultato. Il regalo simbolico che avevamo preparato, rimase per tutto il tempo sull’altare del nostro campo, a fianco di un vasetti di fiori mantenuti sempre freschi. Durante il ritorno le nostre navi si fermarono in quel tratto di mare in cui avvenne la battaglia di Capo Matapan. Con una cerimonia ricordammo tutti i caduti: dopo la Messa lanciammo in mare due corone d’alloro, una per gli italiani e una per gli inglesi, mentre i marinai salutavano sparando alcuni colpi. Con le corone gettammo anche il ricordo che avremmo voluto consegnare alla mamma di Manoli, accomunando così, in un medesimo ricordo, tutti i giovani morti a seguito di eventi bellici, che ci auguriamo non abbiano mai più a ripetersi

Fuoco di Bivacco
Manoli - Racconto al fuoco di bivacco - Maestro dei Giochi